Presentazione

La tecnologia dell’analisi del DNA si è sviluppata negli ultimi anni in modo stupefacente. È oggi possibile ottenere il profilo genetico di una persona a partire da quantità infinitesimali di materiale biologico; è addirittura possibile “genotipizzare” un’impronta digitale, risalendo attraverso di essa al codice genetico di chi l’ha lasciata. Inoltre il DNA è una molecola chimicamente molto stabile, molto più delle altre macromolecole biologiche, per cui si può conservare per decenni anche sulla superficie di oggetti mantenuti in condizioni ambientali ordinarie. Tutto ciò ha fatto sì che la prova del DNA sia divenuta la “prova regina”, tale da poter inchiodare in modo apparentemente inequivocabile un qualsiasi individuo alla “traccia” in cui il suo DNA sia stato identificato.

Ma chi decide e come si decide che due profili genetici uguali, uno ottenuto da una traccia e l’altro ottenuto da una persona nota, appartengono allo stesso individuo, tale per cui se ne può dedurre che proprio quella persona ha lasciato quella traccia? Da una parte è vero che i kit attualmente in uso nella genetica forense consentono di ottenere profili genetici individuali “talmente unici” che bisognerebbe tipizzare l’intera popolazione di milioni e milioni di pianeti-Terra per ottenere una probabilità non trascurabile di osservare due profili genetici uguali in soggetti diversi (con l’unica eccezione dei gemelli monozigoti). Ciò significa che quando si verifichi l’identità fra il profilo di un soggetto di interesse e quello di una traccia, si ha la pratica certezza che il profilo della traccia appartiene a quel soggetto. D’altra parte, la genetica, a differenza di altre discipline forensi, quali ad esempio la balistica, la dattiloscopia, o il riconoscimento vocale, è basata su un calcolo probabilistico rigoroso; ciò fa sì che il perito dell’analisi del DNA non arrivi, alla fine a formulare (o almeno non dovrebbe) un giudizio categorico, positivo o negativo, di identificazione. A questo proposito, gli autori di una qualificata “Guida per il professionista” edita dalla Royal Statistical Society (UK), scrivono:

Una delle caratteristiche peculiari dell’analisi del DNA, se confrontata con altre branche più antiche della scienza forense e della medicina legale, è che la prova del DNA è esplicitamente probabilistica. (…) In effetti il DNA non sarà mai in grado di produrre un riscontro che sia verificabilmente unico per un particolare individuo, perché la valutazione della prova del DNA è sempre, in parte, una questione di probabilità”.

A che cosa è dovuta questa peculiarità? Indubbiamente, il motivo principale che ha reso fin dall’inizio inscindibile la genetica forense dal calcolo probabilistico è la natura intrinsecamente aleatoria del processo biologico riproduttivo, come codificato nelle leggi di Mendel. Il meccanismo con cui si forma il nostro genotipo ad un qualsiasi locus è piuttosto realisticamente equiparabile all’estrazione consecutiva di due biglie colorate da un’urna, in cui la proporzione dei vari colori (e i colori delle biglie possono essere tanti) è variabile da locus a locus. I dettagli dei processi biologici che rendono il modello appropriato ai casi specifici, e i calcoli che ne conseguono, sono spesso molto complicati, ma alla base di tutto c’è quel processo stocastico elementare. Una situazione così emblematica di un sistema aleatorio propriamente detto non si osserva in nessun’altra disciplina forense.

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La prova del DNA si presenta negli affari di giustizia in ambedue i filoni principali, quello civile e quello penale. Nel primo caso la situazione più tipica è quella dell’indagine di paternità, ma altri campi di applicazione si sono molto espansi in anni recenti, dall’identificazione delle vittime di disastri di massa al ricongiungimento familiare in questioni di immigrazione; in generale quindi oggi si parla di “analisi delle parentele biologiche”. Nel caso penale, la situazione classica è quella dell’attribuzione di una traccia biologica ad un dato individuo, ma con la diffusione recente delle basi di dati di DNA, un settore in rapida espansione è la tematica della “ricerca in database”, dove il profilo genetico di un individuo noto viene confrontato con centinaia di migliaia o milioni di profili di DNA archiviati, alla ricerca di un riscontro diretto o anche parziale (il quale potrebbe essere suggestivo dell’identificazione di un parente di quell’individuo).

Il  test genetico di paternità è stato tradizionalmente affrontato, in Italia fin dagli anni ‘50 del secolo scorso, mediante il cosiddetto “approccio bayesiano”, per quanto in una forma di calcolo ridotta e stereotipata: si parte dall’attribuire una probabilità a priori del 50% alle due ipotesi in competizione (“il padre di Tizio è Caio” versus “il padre di Tizio è un soggetto terzo non noto”),  e si calcola la probabilità a posteriori che il padre di Tizio sia Caio sulla base dell’evidenza genetica raccolta.  Come ciò si ottenga in pratica, e quanto possa essere concettualmente problematico tale approccio si vedrà nell’ultimo capitolo, dopo aver introdotto, nei capitoli precedenti, il concetto di “rapporto di verosimiglianza”, che è parte essenziale del calcolo stesso.

Nella criminalistica, invece, l’approccio statistico tradizionale è stato basato sulla cosiddetta “probabilità di esclusione”.  Posto che il profilo genetico di una persona di interesse sia compatibile con una data traccia, si procede calcolando la probabilità che un individuo estratto a caso sia a sua volta compatibile, probabilità che coincide con la frazione teorica della popolazione che non risulta esclusa. Se questa probabilità è sufficientemente bassa (con le tecnologie attuali potrebbe risultare dell’ordine di uno su miliardi di miliardi), il giudice può attribuire a quella compatibilità un valore di prova.  Questo approccio discende concettualmente dal cosiddetto “approccio classico al test delle ipotesi”, una metodologia di valutazione dei risultati scientifici sperimentali che fu sviluppato nella prima metà del secolo scorso, ed è tuttora il metodo più applicato nelle discipline biomediche. Negli ultimi due decenni, tuttavia, si è affermata una corrente di pensiero, la cosiddetta scuola neo-bayesiana, che propone un approccio all’inferenza scientifica alternativo a quello classico. Nella genetica forense, i neo-bayesiani promuovono fortemente l’idea che che l’approccio classico basato sulla probabilità di esclusione debba essere abbandonato, in favore appunto di quello bayesiano, dove il rapporto di verosimiglianza è la quantità cruciale da calcolare e presentare al giudice.

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Di tutto ciò tratta il presente volume. Nell’introduzione ho cercato di riassumere in modo discorsivo i concetti biologici e la terminologia necessaria a comprendere il testo da parte dei non biologi; spero comunque che anche gli esperti ne trovino la lettura piacevole.

Il primo capitolo tratta dei tre modi basilari con cui possiamo arrivare a decidere se una data affermazione è vera o falsa, e serve da introduzione ai due capitoli successivi in cui si illustra l’approccio classico al test delle ipotesi, dal quale è derivato, nella seconda metà del ‘900, il modo con cui i periti riportavano ai giudici i risultati delle indagini di genetica forense in ambito penale. Si tratta essenzialmente di un approccio di tipo falsificazionista.

Nel quarto capitolo si parla del riemergere dell’approccio bayesiano dopo la lunga eclissi determinata dal successo dell’approccio classico e include un excursus filosofico che vede nella contrapposizione fra razionalisti ed empiristi la radice epistemologica dello scontro concettuale, tuttora aperto, fra le due scuole di pensiero, che sono chiamate spesso per semplicità frequentista e bayesiana.

Il capitolo quinto tratta delle nozioni di probabilità e verosimiglianza. Ambedue questi vocaboli fanno parte del lessico comune: si tratta di concetti in buona parte sovrapposti, ma “probabilità” si riferisce prevalentemente alla misura in cui riteniamo che un evento possa realizzarsi, mentre “verosimiglianza” si riferisce piuttosto alla misura in cui riteniamo che un’affermazione fattuale corrisponda al vero. Dalle due nozioni discendono anche le definizioni matematiche di probabilità e verosimiglianza, che è necessario conoscere per capire il significato del “raopporto di verosimiglianza”.  

Il rapporto di verosimiglianza è l’argomento centrale dei capitoli sesto e settimo; da una parte esso rappresenta una quantità cruciale e ineliminabile nell’approccio bayesiano, dall’altra esso è comunque uno strumento cardine dell’inferenza scientifica.

Il capitolo ottavo riassume le problematiche relative all’applicazione degli approcci classico e bayesiano alla prova del DNA, sia nei casi civili che penali, e tratta di una fallacia logica particolarmente ingannevole in cui possono incorrere anche gli esperti. Alla fine del capitolo si mostra come il diverso ruolo che hanno i protagonisti del processo penale, investigatore, perito e giudice, implichi un atteggiamento “legittimamente” diverso rispetto alla formazione della prova scientifica, e come esso si traduca naturalmente, o almeno si dovrebbe tradurre, nell’adozione dell’uno o l’altro dei diversi paradigmi.